Cristo fa ripetuti riferimenti alla povertà; un caso estremo è Mc 10, 17-30, in cui Gesù invita invano un giovane ricco ad abbandonare tutti i suoi beni per seguirlo, e aggiunge la famosa massima (probabilmente mal tradotta) secondo cui sarebbe più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare in Paradiso. Gli apostoli sono confusi dalle sue parole, e Cristo risponde che ciò che è impossibile all’uomo non è impossibile a Dio (Mc 10, 27); di più: Egli precisa che «è difficile, per coloro che confidano nelle ricchezze, entrare nel regno di Dio» (Mc 10, 24).
Una lettura pauperista della massima evangelica, senz’altro diffusa anche nel primo cristianesimo, legge in queste parole un’esaltazione della povertà materiale. Ne è derivato un filone di estremismi disciplinari che ha portato all’esaltazione eroica della povertà come orizzonte di vita, e addirittura come strumento di salvezza. Chi ha vissuto anche solo per un giorno la terribile condizione di carenza di mezzi sa che Dio non potrebbe mai giungere a benedire una cosa del genere: è evidente che gli uomini non siano fatti per soffrire nella ristrettezza, nè si capisce in che modo la privazione materiale, che annichilisce la libertà e frustra ogni legittimo desiderio, possa essere una cosa desiderabile.
Al contrario, Cristo non è pauperista ma apre la porta all’unica ricchezza, che è quella di Dio: arricchire in Spirito significa essere coscienti che Dio è l’unico bene, e che tutte le ricchezze sono vane e illusorie. Significa liberarsi da falsi idoli che offrono una felicità passeggera, destinata ad appassire e a morire. In ciò, dice Cristo, chi è povero può essere quasi avvantaggiato: non essendo abituato a pagare per essere felice, può trovare più facilmente in Dio la soluzione ai proprii dolori. Il che non significa che Dio ci voglia poveri per essere felici, e basta guardare l’epilogo del libro di Giobbe per comprenderlo:
Dio ristabilì Giobbe nello stato di prima, avendo egli pregato per i suoi amici; accrebbe anzi del doppio quanto Giobbe aveva posseduto. Tutti i suoi fratelli, le sue sorelle e i suoi conoscenti di prima vennero a trovarlo e mangiarono pane in casa sua e lo commiserarono e lo consolarono di tutto il male che il Signore aveva mandato su di lui e gli regalarono ognuno una piastra e un anello d’oro. Il Signore benedisse la nuova condizione di Giobbe più della prima ed egli possedette quattordicimila pecore e seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine.
Gb 42, 10-12
Dunque la ricchezza materiale non è una maledizione, ma un dono di Dio. E qui si giunge al punto nevralgico: non è la ricchezza in sé ad allontanare da Dio, ma il suo uso. Cristo dice al giovane ricco: hai adempiuto a tutti i comandamenti? Allora ti resta solo di abbandonare i tuoi idoli. Se non riesci a farlo, significa che li ami più di Dio. Il Vangelo precisa che Cristo «amò» quel giovane: se ne deduce che la sua richiesta era una provocazione, in quanto conosceva già la debolezza del giovane, e desiderava pungerlo nel vivo.
Come va usata dunque la ricchezza? Non per nutrire il proprio ego, non per sopraffare gli altri, non per dominare sulle cose del mondo sostituendosi a Dio, ma per servire, cioè per creare valore nella società umana. Ciò non significa necessariamente fare beneficienza: si crea valore anche e soprattutto creando lavoro, costruendo realtà materiali che contribuiscono al benessere collettivo e migliorano la vita delle persone. Ognuno, con il suo ingegno e i suoi mezzi, è chiamato a servire il prossimo per servire Dio. Solo un giusto discernimento ci può dire come.
Certamente la via di Cristo non può essere quella di certi frati cattolici che si professano poveri solo per farsi comprare ogni cosa dai fedeli: via maestra per essere additati come impostori.