Un tema ricorrente nelle interazioni con il popolo di Dio, questa umanità in attesa di Redenzione, è quello della felicità, della gioia o almeno della pace interiore. C’è la diffusa convinzione (avvalorata talora dalle parole di certi santoni senza scrupoli, soprattutto orientali) che la religione abbia come scopo quello di allontanare timori e ansie, portando gli adepti alla felicità. Questa credenza è talmente radicata in certi contesti culturali da essere stata sviluppata come pastorale, fino al limite estremo del fanatismo: si giunge a sostenere che i cristiani debbano essere «gioiosi» perché portatori della «gioia» dell’Evangelo.
Ora, certamente l’incontro con Dio, ammesso che si verifichi veramente e non sia solo il frutto di uno scimmiottamento ideologico acquisito per mera imitazione, è un evento sconvolgente, che costringe la nostra psiche a confrontarsi con le proprie contraddizioni, e senza dubbio annichilisce la paura della morte con la coscienza dell’Eternità. Tuttavia Gesù, davanti al cadavere di Lazzaro, piange (Gv 11, 35): Cristo, che sapeva che Lazzaro sarebbe morto e resuscitato, al punto da trattenersi in paese solo per compiere il miracolo, piange amaramente constatando tanto la sofferenza dei suoi familiari, quanto la caducità della vita. Il Vangelo ci insegna che Cristo, uomo-Dio, è e deve essere perfettamente umano. E gli uomini hanno paura. Solo la follia può minare questa condizione naturale della ragione, e non è richiesto al cristiano di perdere il senno, ma anzi di guadagnarlo in Cristo.
Veniamo qui alla considerazione centrale: non si può essere cristiani solo inseguendo una cieca fede rassicurante, come fanno i pagani. Si può essere cristiani solo con l’ausilio della ragione, unendo a questa la verità della Rivelazione. Cristo dice agli increduli: vieni e vedi (cfr. Gv 1, 46). Certo, beato chi crederà non vedendo (Gv 20, 29), ma crederà sempre a fronte di una testimonianza razionale, di un fatto storico e non di una fandonia qualunque, per quanto piacevole: come dice giustamente San Paolo, se Cristo non fosse risorto dai morti l’intero cristianesimo non avrebbe alcun senso (cfr. 1Cor 15, 16-17).
Questo annuncio, l’Evangelium, la buona novella, è indubbiamente una notizia di gioia, perché ci comunica che tutto ha un senso, comprese le nostre afflizioni. Ma non mette il pane in tavola se non c’è, non sana un malato terminale e non porta indietro le lancette dell’orologio per un uomo giunto alla fine della sua vita. È una verità e basta, com’è vera la forza di gravità, il colore verde o la precessione degli equinozi. Dobbiamo essere noi, pazientemente, con l’esercizio della nostra umana volontà, a interiorizzare questo lieto annuncio per dire, davanti alla morte, «io non ti temo».
Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?
(1Cor 15, 55)
Insomma, Dio non è uno psicologo che cura la nostra umanità con una subitanea consapevolezza: esattamente come insegna Cristo, che davanti alle lusinghe del Demonio risponde «non tenterai il Signore Iddio tuo» (Lc 4, 12). Noi tutti usciamo di casa per andare a comprare da mangiare, non attendiamo che Dio ce lo porti; allo stesso modo, siamo chiamati a informare in Cristo i nostri pensieri, e se non lo facciamo noi, Dio non agirà al posto nostro. Se non fosse così, del resto, non vi sarebbe alcuna eroicità nei martiri ed in quanti sostengono dure prove nel nome di Cristo. E non vi sarebbe alcuna eroicità in quanti vivono con dolore l’esperienza della Fede in quella che i mistici chiamano «notte oscura dell’anima», come accadde a San Giovanni della Croce, a Madre Teresa di Calcutta ed a molti altri, noti od oscuri. Siamo chiamati ad essere sinergicamente operatori della nostra salvezza, che parte da Dio, ma si concretizza attraverso la nostra viva adesione, senza cui non c’è salvezza.