La liturgia non sembra essere un problema attuale per le Chiese indipendenti in Italia. Le ragioni sono soprattutto due: da un lato il clero indipendente è spesso privo della più basilare formazione liturgica, e di conseguenza si limita a sfogliare un Messale già edito solo perché più pratico; dall’altro le Chiese indipendenti in Italia risentono della contrapposizione, tutta romana, tra vecchio e nuovo (nuovi?) rito, senza però che, per le proporzioni minimali del cœtus fidelium, ciò ne riesca a condizionare l’esistenza.
Al di fuori di queste due dimensioni si collocano poi i casi rari, ma lodevoli, di vescovi che confezionano ex novo riti utili alla loro comunità. Si tratta di poche persone di alto livello culturale che spesso mescolano più tradizioni per offrire ai fedeli un’esperienza unica e genuina. In ogni caso qualcosa di irripetibile su vasta scala.
Il problema concreto è che la mancanza di serietà liturgica si traduce in mancanza di serietà ecclesiale. Su internet si vedono sovente presbiteri indipendenti incapaci di recitare correttamente il Novus Ordo in italiano, i quali si avventurano ad azzardare il “latinorum” senza capirne il senso. Neanche trattiamo poi delle liturgie orientali: terra di nessuno.
In ciò appare indiscutibile il ruolo della formazione seminariale del clero romano, che i sacerdoti indipendenti spesso (ma non sempre) non seguono, con grave nocumento per la qualità del loro ministero. Indubbiamente si osserverà che questi aspetti appaiono quasi secondarii a fronte di una realtà in cui, spesso, mancano le minime basi teologiche ed esegetiche.
In conclusione, i fedeli delle comunità indipendenti dovrebbero prima di tutto verificare la qualità della liturgia, cartina al tornasole della qualità del clero cui si rivolgono.

