Alcune persone credono che basti sentirsi religiosi per essere, se non felici, almeno quieti. È piuttosto comune sentire, in contesti neanche particolarmente fanatici, ma forse un po’ ingenui, che chi «trova Dio» troverebbe la pace.
Cercare e trovare Dio.
Alcune osservazioni possibili sulla validità di questo punto di vista sono piuttosto banali: la prima è che non siamo noi a «trovare Dio», magari inventandocelo di sana pianta, ma semmai è Dio che «si fa trovare» attraverso la Rivelazione, perché tutto ciò cui possiamo giungere con l’aiuto della teologia fondamentale è unicamente la ragionevolezza (e forse la necessità logica) dell’esistenza dell’Assoluto, non già il suo nome e indirizzo. Dio, insomma, non si cerca nè si trova, si manifesta nella nostra vita quando è il momento giusto, καιρός, direbbero i Vangeli.
La felicità dell’uomo.
E poi veniamo al secondo aspetto, non meno fondamentale del primo: l’uomo è fatto per essere felice, e il dolore è uno strumento di purificazione di cui Dio si serve nelle nostre vite, non un fine, o sarebbe un Dio di morte.
L’ansia, la depressione, il dolore, sono stati anomali dell’esperienza umana, che trovano la loro cura o con l’eliminazione delle loro cause, o con la correzione dei loro effetti. Se una persona è patologicamente depressa deve recarsi dal medico psichiatra e seguire le cure del caso, non studiare teologia. Certamente la coscienza di un oltre al di là della vita materiale è un valido motivo per non guardare con terrore la morte; ma esistono molti atei che non solo non hanno paura di morire, addirittura cercano attivamente la morte e muoiono senza alcuna disperazione. Insomma, essere persone religiose non sembra essere una «cura» al male di vivere.
Perché credere.
Il concetto essenziale che deve essere chiaro ai fedeli è che non si può credere per paura: Dio pretende da noi un’adesione d’amore, un «sì» incondizionato non basato su un «do ut des». Certo, razionalmente – ci insegna Pascal – ci converrebbe sempre credere in un Dio che promette amore e felicità eterna, ma la nostra Fede non può derivare da un mero calcolo, o sarebbe un gioco ipocrita e, quindi, per sua natura non suscettibile di produrre un vantaggio spirituale.
La vera salvezza che giunge da Dio, e che produce frutto nelle nostre vite, è piuttosto la consapevolezza della nostra natura, e quindi la dimensione, assieme, della nostra finitezza e della nostra eternità.
La finitezza ci insegna che alcune cose della nostra vita, dal nostro corpo ai nostri affetti, per finire con le nostre cose, non sono eterne e non verranno con noi: diceva San Giuseppe da Copertino che dobbiamo essere come viandanti, affettuosi con tutto ciò che incontriamo, ma non legati a nulla, perché tutto ci distoglie dalla meta che è il Cielo.
L’eternità, dal canto suo, ci dichiara che oltre le cose passeggere esiste qualcosa di infinito in noi che dura oltre la carne, in un modo misterioso che non comprendiamo e non possiamo conoscere veramente in questa vita.
Alla fine, non importa conoscere la risposta, perché essa è inconoscibile all’uomo: finché vivremo non potremo avere prove dell’Aldilà, e quando saremo morti non potremo tornare, perché un «grande abisso» separa i vivo dai morti (Lc 16, 26). Ci resta solo la Fede, cioè la via della saggezza che si apre all’oltre, che non pretende di possedere risposte, ma trae qualcosa di bello e buono da ogni espressione della vita umana.
La vera pace in Cristo.
Se serve un paragone, si osserverà che anche una pietra non prova dolore, ma non per questo diciamo che sia felice. Allo stesso modo, esistono tanti modi per non provare dolore, ma un solo modo per raggiungere la pace di Cristo. E questo modo non è un rituale o una preghiera, ma soprattutto un’esperienza di vita in cui si passa dal fuoco della purificazione:
Egli è come un fuoco d’affinatore, come la soda dei lavandai. Egli siederà come chi affina e purifica l’argento; purificherà i figli di Levi e li affinerà come oro e argento, perché possano offrire all’Eterno un’oblazione con giustizia.
Mal 3, 2-3
Solo chi vive questa esperienza prova la vera pace, e raggiunge in questa vita un barlume dell’esperienza del Cielo.
La tradizione tentava di riprodurre questo meccanismo indirettamente attraverso la mortificazione: mortificazione della carne, povertà materiale, digiuno, etc.. Si tratta di metodi rudimentali che nella maggioranza dei casi (tolti cioè veri e proprii casi di santità) non hanno ragion d’essere: se frati e suore spendessero la metà del tempo che dedicano a predicare la povertà per guadagnarsi il pane e avere di che sostentarsi, invece di vivere di rendita in cenobii e monasteri costruiti con il denaro dei fedeli, raggiungerebbero prima e con più profitto la quiete dell’anima, perché avrebbero delle serie afflizioni da offrire a Dio, e non solo vaghi lamenti.
La via che io, da vescovo, consiglio a tutti i fedeli, è quella di avviare progetti nella propria vita che manifestino l’opera di Dio: che si tratti di mettere via un euro al giorno per un’adozione a distanza, di fare la spesa ad un vicino anziano o di brevettare un’invenzione geniale, è indifferente, purché sia un’azione, piccola, piccolissima o enorme, frutto positivo degli strumenti che Dio Onnipotente ci ha dato.
Ogni afflizione che vivremo sarà allora una fatica positiva per concorrere a realizzare l’opera di Dio, e darà frutto perché sarà offerta direttamente a Dio. E non solo farà meno male, ma renderà ancora più dolce il risultato.