Il tradizionalismo cattolico è associato allo scisma lefebvriano della Fraternità Sacerdotale San Pio X (FSSPX), la cui bandiera è il rifiuto del Novus Ordo Missæ promulgato da papa Paolo VI, imposto a tutta la Chiesa latina (con poche eccezioni) a partire dal 1970. La FSSPX adopera, in segno di protesta, il Missale Romanum del 1962, giudicato da Mons. Lefebvre come l’ultimo aggiornamento “accettabile” del Rito Romano originale.
La ragione principale dello scisma della FSSPX non è tuttavia liturgica, ma dottrinale: i lefebvriani ritengono che la “nuova Messa”, erroneamente attribuita al Concilio Vaticano II, non rispecchi più i dogmi del Cattolicesimo, tra cui in particolare la natura sacrificale ed espiatoria del rito eucaristico, sostituita – a loro modo di vedere – da un’agape di derivazione protestante, la cui costruzione liturgica era passata dal riassemblaggio (se non dalla vera e propria invenzione) di materiale che non aveva legami con la Tradizione.
Questa lettura del Novus Ordo, anche se ha un fondo di verità, è ultronea: non è affatto vero che il rito non si presenti come sacrificale («Orate, fratres, ut meum ac vestrum sacrificium acceptabile fiat apud Deum Patrem omnipotentem», lo ripete ancor oggi il sacerdote), e in ogni caso non è vero che la corretta interpretazione della Messa sia solo quella sacrificale tramandata dalla complessa architettura barocca del cosiddetto Rito Tridentino.
È vero invece che, a partire dagli studi di René Girard, nonché, in Italia, dalle esegesi di personaggi largamente ostracizzati dalla Chiesa romana, come padre Ortensio da Spinetoli, l’intera «teologia dell’espiazione», cioè l’idea che tutto il mondo creato ruoti attorno alla caduta e redenzione dell’uomo a mezzo del sacrificio di Cristo, abbia cominciato a mostrare tutti i suoi limiti storici, esegetici, ed anche logici. Oggi nessuno ritiene più accettabile l’idea brutale di un Dio Padre vendicatore che deve essere placato attraverso lo scannamento barbarico di suo Figlio. L’idea che la Croce serva a ripagare un’onta ed a ripristinare un ordine cosmico di cui, ormai, l’uomo si sente un tassello insignificante, appare completamente irrazionale: perché mai Dio, che può tutto, avrebbe dovuto costruire una narrazione così contorta per salvare l’umanità, quando poteva direttamente intervenire nella Storia?
La domanda è lecita perché la «teologia dell’espiazione» è frutto di un retaggio culturale diffuso presso molte società tradizionali, tra cui i popoli del Mediterraneo che udirono la predicazione degli Apostoli, un retaggio fondato su di un’idea opprimente di “colpa” e di “peccato” come offesa a Dio – come se un uomo potesse mai minorare di qualcosa l’Assoluto.
La Messa dei primi cristiani, al contrario, era una pratica che si credeva compiuta da Cristo in presenza degli Apostoli, al fine di renderli partecipi della sua divinità: Cristo si donava agli Apostoli, e gli Apostoli avrebbero, dopo la sua morte («fate questo in memoria di me» – Lc 22, 19) continuato a trasmetterne ritualmente lo Spirito. La morte di Croce fu il dono definitivo di un Dio-Uomo che si offre per i propri amici (Gv 15, 13) e dichiara, con la Resurrezione, la propria libertà dalla schiavitù della morte (Rm 1, 4). Fu solo con la graduale nascita della teologia cristiana, già a partire da certe immagini paoline, che i cristiani cominciarono a ricamare teorie sulla natura dell’eucarestia, creando quell’apparato teologico che, oggi, nella Chiesa romana è dogmatico.
Col Concilio Vaticano II alcune di queste suggestioni divergenti riemersero nel dibattito cattolico, e portarono inevitabilmente a conflitti irriducibili. Il risultato fu l’opera di compromesso del Novus Ordo, che scontentò i tradizionalisti tanto quanto i progressisti.
Oggi molte chiese indipendenti, tra cui parzialmente anche la nostra, adoperano il Missale Romanum nell’edizione del 1965, detto anche «il Messale del Concilio», perché rappresenta la vera riforma liturgica voluta dai Padri, prima degli interventi fantasiosi di Paolo VI. La scelta è ponderata: il Messale in questione è sostanzialmente lo stesso Messale Tridentino con una traduzione parziale in lingua vernacola, al fine di rendere possibile la partecipazione del popolo (era questa una concessione all’idea di «agape» che abbiamo citato). Questa scelta non è seguita dalla FSSPX, ed è avversata in ambiente romano-cattolico, ma sta tornando in auge in alcuni gruppi cattolici di frangia. Il Messale del 1965 è formalmente abolito nella Chiesa romana, ed il suo uso è proibito per i cattolici romani.
Scegliere di usare il Messale del 1965, nel nostro caso, non significa abbracciare la teologia dell’espiazione, bensì accettare come parte di noi, del nostro «essere come siamo», un rito plurimillenario che ha la sua origine nei primi secoli della Chiesa, ed ha portato a tantissimi vantaggi spirituali. L’identità del rito, dal nostro punto di vista, garantisce l’identità dei sacramenti, anche se dobbiamo accettare tutti (compresi i cattolici romani ed i lefebvriani) l’idea che gli uomini di oggi non siano gli stessi uomini di mille o duemila anni fa, per cui la nostra comprensione dei dogmi di fede, che restano in nuce sempre gli stessi, è necessariamente cambiata, e cambierà ancora nel corso dei secoli. Questo fu, del resto, anche lo «spirito del Concilio», che «né ha voluto cambiare né di fatto ha cambiato tale dottrina [della Chiesa, ndr.], ma ha voluto solo svilupparla, approfondirla ed esporla più ampiamente» (CDF, 2007).
La nostra ricetta, come Chiesa, è tradizione rituale e modernità teologica. Una ricetta del tutto nuova e inusuale nel panorama delle Chiese indipendenti, e di cui andiamo particolarmente fieri.
+ Aloysius episcopus.